Da qualche tempo cerco di prestare attenzione a come la parola “nonviolenza” viene scritta da giornalisti, studiosi, saggisti. Nella maggior parte dei casi, con la complicità dei programmi di correzione automatica dei computer evidentemente poco interessati all’opera di Gandhi e Capitini, viene spezzata in due parti: non violenza. Altre volte, come ad attenuare il trauma della cesura, viene ricucita con un trattino: non-violenza.
Questo esercizio ortografico che, sono consapevole, a qualcuno potrà apparire poco utile, mi sembra faccia invece emergere un problema non irrilevante: ancora oggi la nonviolenza, il pensiero e la prassi della nonviolenza, risultano ai più sconosciuti, estranei. Non solo nelle chiacchiere da bar, ma anche negli scritti di autorevoli commentatori, sovente si confondono nonviolenza, pacifismo e resistenza passiva: un metodo di azione che implica sempre un fare, e soprattutto un fare in un certo modo, viene spacciato per pura e semplice astensione dalla violenza.