Felice cercava il suono della vita in ogni cosa, anche nelle pietre cave che si trasformavano per lui in draghi e giganti, fu così che venne morso dall’argia, il ragno della vita e della morte.
Furono le sagge donne del paese a farlo “partorire” per sciogliere il veleno di fuoco dell’argia nell’acqua del parto, così Felice rinacque.
E rinacque pastore, protettore dei suoi agnelli.
Per questo sparò. Una notte sparò. Una storia potente che sfiora riti antichi e umane fragilità per ricordarci come anche dal male, attraverso l’esperienza di un carcere che educhi al rispetto per tutto ciò che vive, si possa rinascere.
Emanuela Nava, una delle voci più prestigiose della letteratura per ragazzi italiana, vive e lavora a Milano e ha pubblicato storie con le maggiori case editrici del settore.
Il cielo tra le sbarre / Gruppo Editoriale Raffaello, 2016
Pag. 112 – € 9.00
“Il Cielo tra Le Sbarre”, con la prefazione di Marco Verdone.
Un libro che parla di un antico rito sardo, di carcere e di rinascita.
Dedicato a Marco Verdone, coraggioso veterinario all’Isola Carcere della Gorgona,
a Pinuccio Sciola, grande artista e musicista delle pietre, a Mara Lasi, che per prima mi ha svelato i segreti dell’argia partoriente.
Dedicato agli amici di San Sperate e alla Sardegna tutta.
Senza le Isole questa storia non sarebbe mai nata.
# QUI la recensione di Silvia Casini #
“Era un bambino quando accadde.
Era andato in cerca di pietre: le pietre di basalto che suonavano e vibravano come fuoco di un vulcano. Lo faceva sempre: si sedeva all’ombra di un albero e accarezzava i sassi con la mano umida. Era stato l’uomo enorme e biondo, l’uomo bellissimo e forte a dirgli che le pietre suonavano. Ma, perché suonassero con più forza, occorreva tagliarle, inciderle, permettere ai suoni di giungere fino al cielo, dove altri suoni di luna e stelle, musica di ingranaggi celesti, restituivano l’eco.
L’uomo guardava il bambino con occhi così blu e scuri, che il bambino a volte si confondeva.
-È ossidiana? È granito? È una pietra serpentina?- chiedeva.
-È una pietra viva.- rispondeva l’uomo. -Le pietre sono vive. Vuoi ascoltare anche il suono dell’acqua?
E l’uomo accarezzava piano una roccia calcarea che aveva inciso con tagli che la rendevano simile a un’arpa e da quella carezza nasceva uno zampillo, uno scorrere di onde, un mormorio di conchiglie.
-Le pietre sono acqua, fuoco, stelle, le pietre sono i semi del mondo.- diceva l’uomo.
E allora l’uomo raccoglieva piccoli sassi e li spargeva nei campi dove cresceva il grano. Lo faceva gettandoli alle spalle, senza guardare dove fossero caduti, affinché i sassi potessero generare nel buio della terra giganti e draghi.
-Ancora, ancora.- diceva il bambino. –Fallo ancora.
E già li vedeva, i piccoli sassi, mentre germogliavano e fiorivano, e da quei fiori spuntavano teste, braccia, gambe, zampe, anche lingue di fuoco: esseri ciclopici e mostruosi capaci di costruire fortezze e torri smisurate, così come senza misura erano le loro mani.
Anche l’uomo aveva mani grandissime, e dita lunghe che sfioravano le pietre come archetti di violino. Aveva un giardino davanti a casa e tra gli ulivi e gli alberi di arance aveva collocato pietre formidabili, che facevano paura solo a guardarle.
-Ma una paura bella.- sussurrava l’uomo al bambino. –Avvicinati.
Erano enormi pietre cave: all’interno c’era un vuoto che cantava se la pietra veniva sfiorata.
-Sono i sarcofagi dei giganti.- disse l’uomo un giorno. –Sono sepolture, ma sepolture vuote, perché i corpi non ci sono più. Sono risorti.
-E dove sono andati?- chiese il bambino.
-A nascere di nuovo.- rispose l’uomo. –I giganti muoiono e rinascono sempre. Come le nuvole.
Era alle nuvole e ai giganti che pensava quando accadde.
Era alle loro mani gigantesche, che andò il suo cuore, mentre con gli occhi che si muovevano dal cielo alla terra, il bambino rovistava nei campi alla ricerca di sassi.
-I sassi cambiano forma come solo i giganti e le nuvole sanno fare.- ripeteva tra sé. E intanto raccoglieva le pietre e le divideva in mucchietti chiari e scuri con le venature gialle e verdi, che bagnava con la saliva per rendere brillanti.
Accadde così, mentre il bambino Felice giocava da solo e immaginava di far nascere dai sassi ciclopi di ogni grandezza e colore, e forse anche fate o sirene, se i sassi fossero stati gettati nel fondo del mare.
Fu morso. Fu questo che accadde.
Fu morso da un’argia, il ragno della vita e della morte, così come lo chiamavano al paese, perché aveva dentro di sé il veleno di molti serpenti, ma anche la vita, per chi alla vita sapeva rinascere.”