I GRANDI ASSENTI tra alpeggi, formaggi e selvaggi / di Marco Verdone

I GRANDI ASSENTI
tra alpeggi, formaggi e selvaggi

 di Marco Verdone
[copyleft / www.ondamica.it / sett. 2015]

Ho scorso tutto l’articolo di Carlo Petrini ma non l’ho trovato.
Speravo che se ne facesse almeno un cenno ma l’interesse è ancora una volta spostato sulle esigenze dell’umano. In questo caso quelli che producono formaggi di montagna. Cercavo un riferimento al soggetto animale non umano che permette tutto questo e sulla cui pelle (o meglio mammella) ruota tutta la filiera del latte. Anche 
sui verdi pascoli di montagna.

Una filiera di cui si racconta, come sempre, la parte finale e se ne trascurano antefatti, retroscena e dettagli. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e sostenitore delle filiere corte, rurali e montane, ancora una volta ricorda l’importanza degli alpeggi. “Difendiamo i pascoli sui monti per salvare il sapore dei formaggi” è il titolo dell’articolo apparso sulle pagine culturali de la Repubblica giovedì 17 settembre scorso [1]. Nella foto a corredo si vede il primo piano di una mucca Bruna alpina (senza corna, con due paia di marche auricolari e un campanaccio al collo), un’altra che viene munta e sullo sfondo conifere e vette di un alpeggio. Tutto questo risulta fortemente evocativo e l’importanza della gestione delle nostre montagne, soprattutto per il dissesto idrogeologico, appare fuor di dubbio. La tutela dell’ambiente è scontata nonostante spesso ce ne dimentichiamo.

Intanto, mentre a Expo campeggia lo slogan sempre meno credibile di “Nutriamo il pianeta”, nella piccola cittadina piemontese di Bra (Cn), si sta consumando “Cheese”, una nota manifestazione promossa da Slow Food intorno alle filiere casearie, dedicata quest’anno “Alle sorgenti del latte”.

Chi conosce gli animali, i pascoli, il latte e i cicli produttivi dei formaggi sa però cosa c’è dietro queste sorgenti. Quanto questo mondo, e i processi connessi, siano fortemente radicati in noi e continuamente rinforzati soprattutto da una pubblicità quasi mai veritiera che spaccia per bucoliche e inoffensive certe pratiche di produzione di alimenti di derivazione animale che invece nascondono agli occhi dei consumatori aspetti di profonda sofferenza da parte dei protagonisti di queste filiere: gli animali non umani che arbitrariamente chiamiamo “da reddito” e che ammassiamo, fisicamente e concettualmente, nel grande contenitore degli armenti, del bestiame.

Gli animali non umani, i veri artefici dell’oggetto produttivo di cui si parla e di cui si celebrano le filiere economiche, è il grande assente. Assente nell’articolo di Petrini, così come assente in tutti gli ambiti dell’agro-business dove si parla di produzioni lattiero-casearie, carnee, ecc.
Sui grandi assenti si costruiscono anche le filosofie del “buono, pulito e giusto” tanto care a organizzazioni come Slow Food. È tutto bello, tutto buono, siamo in pace con la coscienza: ottimi formaggi (con l’inevitabile collegamento alla catena della carne), grandi sapori, chef stellati, vini pregiati, tavole ricche, prodotti di nicchia, convegni, brand di qualità, made in Italy, famiglie felici e aziende floride.

Ma siamo sicuri che tutto vada bene?

La secrezione della mammella di alcuni ruminanti (da noi bovini, bufalini, ovini, caprini) che poi si caseifica e diventa formaggio, porta con sé molti problemi legati non solo al consumo di un prodotto concepito per altre finalità (allattamento di un vitello, agnello o capretto) ma a pratiche di allevamento che, ad esempio, costringono le femmine a essere costantemente gravide e in lattazione (salvo pochi mesi di pausa), a vedersi quasi sempre separare precocemente dai loro figli, essere fecondate artificialmente, produrre una prole che andrà prima o poi al macello, luogo che loro stesse raggiungeranno “a fine carriera”. Negli allevamenti intensivi o semi-intensivi, le mucche cosiddette “da latte” vivono spesso in condizioni di totale azzeramento delle loro esigenze fisiologiche ed etologiche. La fine poi, che sia un sistema intensivo, di montagna, biologico o biodinamico, per la maggior parte di loro è sempre uguale all’interno delle mura ben occultate di un macello dove una morte oggettivamente violenta non farà sconti per nessuno.

L’essere senziente che permette di attivare queste filiere alimentari viene ridotto da Petrini, come da altri, a “risorsa animale”, addirittura evocando una “relazione quasi mistica tra l’uomo e i suoi armenti”. L’animale umano utilizza gli altri animali, li ha addomesticati a proprio uso e consumo, li ammassa nella categoria merceologica del bestiame (o armenti), ne reclama la proprietà, li trasforma in risorsa, li riduce a oggetti e, fondamentalmente, ne fa quello che vuole. Il mercato, la cultura, le tradizioni, le abitudini, la religione, la giurisprudenza ne sostengono le liceità e, l’umano che si pone semplicemente domande e che magari vorrebbe mettere in pratica alcuni semplici principi di rispetto dell’Altro non umano e di nonviolenza, non trova terreno facile.

Lo testimonia la storia riportata sempre sullo stesso numero de la Repubblica dove a pagina 23 si riprende la vicenda dei genitori pisani accusati di aver causato una presunta carenza di vitamina B12 al loro bambino (“Io, mamma vegetariana ecco la verità su mio figlio”) [2]. Al di là della vicenda in sé che appare come una fanfara mediatica piena di elementi pregiudiziali, i fatti sono collegati perché relativi alla presa di coscienza dell’insostenibilità di filiere alimentari intrinsecamente malate e piene di sofferenza. Le scelte di stili di vita che cercano di escludere alimenti derivati da evidenti modalità violente, come quelli di origine animale (vedi infografica [3]), suscitano la reazione del sistema dominante. Un pensiero diverso che mette in discussione processi millenari di abuso di potere dell’umano sugli altri animali (e non solo) inevitabilmente incontra ostacoli e pregiudizi.

È illusorio, però, che si possa fare qualcosa di buono e giusto sfruttando e sterminando altri esseri viventi. Ormai è ampiamente consolidata l’idea che si possa vivere bene senza consumare alimenti di origine animale. E che lo svezzamento senza carne, ad esempio, è un tabù da superare.

Ma quello che interessa è riposizionare la specie umana all’interno della biodiversità del pianeta Terra. Il nostro modello dominante di sfruttamento delle risorse comuni, di mercificazione di tutto e tutti, oltre a essere fallimentare, sta diventando sempre più pericoloso. Tutti o quasi lo sappiamo e lo vediamo. Nessuno o pochi riescono o vogliono cambiare. Il cambiamento, prima di prospettiva mentale e poi materiale, è urgente. Non abbiamo altro tempo. E mentre noi aspettiamo o sollecitiamo una qualche svolta, altri cambiamenti sono già in atto da tempo.

Il clima è cambiato. Non abbiamo scusanti e appariamo tutti allarmati. Ma apparire non vuol dire agire. Ci agitiamo ma non cambiamo per cambiare il clima.

Eppure i cambiamenti climatici sono dovuti prevalentemente a fattori antropici. Cioè siamo noi la prima causa dell’alterazione del clima sul pianeta a danno di tutto il resto del vivente. Quindi dovremmo riconsiderare i nostri comportamenti. Siamo noi quelli che dobbiamo cambiare, non altre entità.

E tra le nostre responsabilità è stato evidenziato l’importante ruolo svolto dalle attività collegate agli allevamenti. La zootecnia contribuisce a produrre CO2, metano e altri gas a effetto serra. Lo sfruttamento degli animali non umani consuma acqua, terre fertili, contribuisce alla deforestazione, alla produzione abnorme di rifiuti (organici e non), all’uso massiccio e pericoloso di farmaci per i soggetti che alleva (come antibiotici e ormoni).

Anche in un documento dell’UE sul clima rivolto ai giovani si legge: “Ma la combustione dei carburanti fossili per la produzione di energia e altre attività umane, come l’abbattimento delle foreste pluviali e l’allevamento del bestiame, producono ingenti quantitativi di gas a effetto serra, che vanno ad aggiungersi a quelli naturalmente presenti nell’atmosfera. Ciò provoca l’aumento dell’effetto serra e del riscaldamento globale”.[4]

Eppure, nonostante gli allevamenti animali siano responsabili, tra l’altro, di quote considerevoli di emissioni di gas serra (del 18% del totale secondo il dossier FAO Livestock Long Shadow, “la lunga ombra del bestiame” / FAO2006[5] fino al 51% in base ai dati del WorldWatch Institute, Livestock and Climate Change / 2009 [6]) i maggiori organismi, pubblici e privati, sembrano metterci poca enfasi nell’indicare questo dato così importante e suggerire di conseguenza scelte alimentari adeguate come la drastica riduzione o meglio l’eliminazione di tali prodotti dalle nostre tavole.

Un atteggiamento ambiguo che ha suscitato molte perplessità ed è diventato fonte di ispirazione per il recente film-documentario Cowpiracy: The Sustainability Secret dei registi Kip Andersen e Keegan Kuhn e che sta girando in questo periodo in varie città italiane promosso dall’associazione Essere Animali [7]. Com’è possibile, si chiedono i due giovani documentaristi, che una delle principali cause di degrado del pianeta non venga presa in seria considerazione dalle stesse organizzazioni ambientaliste e governative che dovrebbero combattere le cause di tale degrado? 

Ma quel numero de la Repubblica non contiene solo l’articolo di Petrini, che ha suscitato in un veterinario di frontiera come me queste brevi riflessioni, e l’intervista ai genitori maltrattati dal personale medico probabilmente a causa delle loro scelte eterodosse. Tra le pieghe di un’altra intervista che Bernardo Valli ha fatto al famoso antropologo Claude Lévi-Strauss (si tratta della prefazione al libro Siamo tutti cannibali[8] troviamo un richiamo interessante alla nostra discussione attorno al ruolo che umano esercita sui suoi simili, sulle altre specie e sul pianeta nel suo complesso. Valli scrive che Lévi-Strauss <ha raccontato scientificamente civiltà ‘selvagge’, traendone una morale irrinunciabile. Morale secondo la quale una società educata non può essere scusata per il solo crimine veramente inespiabile dell’uomo: peccato che consiste ‘nel credersi durevolmente o temporaneamente superiore e nel trattare degli uomini come oggetti: in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione o semplicemente dell’espediente’>.

Esistono altri crimini che si ripetono ogni giorno. Crimini in tempo di pace (per citare il titolo di un saggio di Massimo Filippi e Filippo Trasatti [9]), quelli che si rinnovano sugli animali non umani in quasi ogni angolo della Terra. Quella sterminata massa di soggetti (50-60 miliardi l’anno), di esseri senzienti che perde la vita per produrre quello stesso cibo fonte di enormi problemi per il pianeta e i suoi abitanti.[10]

Non credo che l’unico crimine veramente inespiabile dell’umano sia trattare gli altri umani come oggetti. Estendo l’errore a tutti gli esseri viventi che devono soggiacere alla nostra visione antropocentrica e dominatrice. Non siamo superiori a nessuno e anche se per qualche motivo, per ora inspiegabile, lo fossimo davvero, ciò accrescerebbe solamente la nostra responsabilità (noblesse oblige). Siamo esseri complessi e per molti versi incomprensibili, e forse gli alpeggi potrebbero aiutarci a gettare dall’alto uno sguardo sul resto del mondo. E se una mucca, – con le corna, senza targhe e campanacci – decidesse liberamente di farci visita potremmo cogliere l’occasione per contemplare insieme il mondo immaginando nuove relazioni oltre le attuali differenze gerarchizzanti di specie. [MARCO VERDONE / copyleft 2015]


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