Lo confesso: spesso cedo a “ciò che i mascalzoni chiamano sentimentalismo”, per citare Romain Gary. Perciò mi ha colpita e commossa la vicenda recente –per alcuni minore o insignificante– che ha avuto come scenario Gorgona.
Come premessa occorre ricordare che l’isola più piccola e più verde dell’Arcipelago toscano è sede di una colonia penale nota per essere da molti anni teatro di un’esperienza interessante, che attraverso il lavoro cerca di restituire ai reclusi la dignità e qualche opportunità d’inserimento sociale. Certo, è pur sempre un universo carcerario e tale resta. E tuttavia, se si considera che in Italia a lavorare è solo il 13 per cento della popolazione carceraria, si può apprezzare il fatto che lì tutti i detenuti siano impegnati in attività lavorative: fra le molte, la viticoltura, che produce un ottimo vino bianco che porta il nome dell’isola.
Solo in un contesto simile poteva svolgersi la storia, in apparenza marginale, riportata da alcuni blog e quotidiani, che ha come protagonista principale una maialina. Un giorno Bruna, che prima dell’esito felice della vicenda era solo la “scrofa n.02”, viene trovata riversa e semiparalizzata, sicché sembra ormai destinata al macello. Un destino cui si ribella Marco Verdone, il veterinario della casa di reclusione, persona intelligente e sensibile. Aiutato da alcuni detenuti – che in fondo non fanno che restituire a Bruna un po’ di quella consolazione che ricevono dagli animali– egli tenta una terapia omeopatica, potenziata da massaggi e carezze. Con grande sollievo di tutti, Bruna comincia a dar segni di miglioramento.
Ilaria Casalini, maestra di una scuola dell’infanzia di Livorno, viene a sapere di questa vicenda e ne rimane colpita. Pensa che l’empatia e la pietas verso la “scrofa n.02” sia una lezione esemplare di rispetto, attenzione, cura dell’altro: il radicalmente altro, in questo caso. E che tale sia il suo valore educativo che conviene cercare di trasmetterlo ai bambini. Così coinvolge gli alunni, le colleghe, l’intera scuola in un percorso pedagogico che ha per tema l’accettazione di sé e dell’altro.
Attraverso lo scambio di foto, lettere, disegni, i bambini cominciano a prendersi cura della maialina, anzitutto dandole un nome. Infine, il 13 marzo scorso, inviano al direttore del carcere, Carlo Mazzerbo, un appello scritto, firmato da loro stessi e da tutte le insegnanti. Affinché non solo egli conceda la “grazia” a Bruna come agli altri animali, ma le attribuisca anche “ufficialmente e definitivamente (…) lo status di animale rifugiato, ossia di essere senziente che sarà tutelato nella sua soggettività, con un suo nome, e al quale sarà riconosciuto il diritto universale alla vita, che terminerà senza il pericolo della morte in macello”.
Tutt’altro che sconcertato, il direttore si dà da fare e un mese dopo risponde all’appello con un decreto ufficiale che, con tanto d’intestazione del ministero della Giustizia, “concede e garantisce” a Bruna “lo status di rifugiato e il ruolo di cooperatore del trattamento”, nonché la garanzia del “miglior livello di benessere possibile” e di “una morte dignitosa secondo la naturale durata di vita”. Tutto ciò con argomentazioni interessanti che fanno riferimento anzitutto alla qualità di soggetti ed esseri senzienti degli animali nonumani, ma anche al loro “imprescindibile ruolo cognitivo e terapeutico”.
Si può obiettare che questa vicenda, per quanto edificante, sia venata da antropomorfismo, poiché proietta sui nonumani categorie e concetti squisitamente umani. E’ il rischio paradossale che corrono perfino coloro –fra i quali chi scrive– che intendono affermare una prospettiva non–antropocentrica, tale da riconoscere agli altri animali la qualità di esseri singolari, intelligenti, senzienti, capaci di empatia, perfino di simbolizzazione.
Si può anche ipotizzare che fra i tanti che si sono commossi nel leggere questa storia vi sia chi continuerà a nutrirsi di salsicce e simili, facendo finta d’ignorare l’orrore degli allevamenti e macelli industriali, e della catena di smontaggio della materia prima suina.
E non solo: questa specie di fiaba a lieto fine potrebbe anche indurre a dimenticare che il suo contesto è pur sempre quello di un’istituzione totale, per quanto incivilita, ove degli esseri umani sono comunque privati della libertà.
Io penso, tuttavia, che aver salvato Bruna e forse altri animali di Gorgona sia un risultato positivo, anche rispetto alle condizioni di vita dei detenuti. E che sul piano simbolico e finanche politico questa piccola storia contenga qualche messaggio e insegnamento da mettere a frutto.
Annamaria Rivera
(8 maggio 2014)