Per ogni specie di libertà
Uomini e animali, fuori dai recinti
di Leonora Pigliucci
su Asinus novus il 26.10.2012
Apparso su Gli Altri. La Sinistra quotidiana il 26/10/2012
Gorgona – che dal latino gurges allude al vortice, ciò che ti afferra e ti trascina con sé per trasformarti – è l’ultima isola carceraria d’Italia, punta settentrionale dell’arcipelago toscano, dove ha luogo un inedito laboratorio di formazione e di dignità della carcerazione che coinvolge 70-80 detenuti alla volta, oltre a una schiera di detenuti non umani, mucche, pecore, capre, maiali, asini, cavalli e galline e diverse famiglie di api. La quotidianità dell’allevamento è per i carcerati occasione non solo di assunzione di responsabilità, di lavoro e di formazione, ma anche, e soprattutto, di meraviglia, di relazione e di cura destinata a risolversi in una contraddizione finale: l’arbitrio della macellazione, verso cui gli animali si avviano docilmente, ignari e fiduciosi in chi che se ne è fino all’ultimo preso cura.
E’ a partire da questa nota stonata, dal sapore amaro di un’amicizia tradita, dal senso di vergogna che un giorno all’improvviso emerge dall’incrocio degli occhi con quelli, smarriti, di uno degli animali giunto al capolinea che ha già la pistola sulla fronte, che il veterinario dell’isola, Marco Verdone pensa la proposta di una Carta per i diritti degli animali di quel luogo (ma anche di quelli al di fuori) «per rendere esplicito un problema sommerso, che mette in crisi il sistema produttivo, ambientale, sanitario, filosofico, etico e spirituale dell’uomo».
Edito da Altreconomia (2012, euro 12) Ogni specie di libertà – Il sogno di un mondo migliore per tutti i viventi è un’opera corale che ospita, tra gli altri, interventi di un sociologo del diritto, un filosofo, un teologo, un’associazione antispecista e di un ex detenuto, Claudio Guidotti, cui la presenza degli animali fu di profondo conforto durante il periodo di reclusione e che dopo l’esperienza sull’isola rinunciò ai 45 giorni di liberazione anticipata per prendersi cura del cane Miele. Sono interessanti molte delle proposte specifiche delle Carta, soprattutto quella dell’introduzione di un’ obiezione di coscienza per i veterinari che non vogliano nuocere ai loro pazienti animali e quella per nuovi modelli di interazione curativa con gli animali, oltre la pet therapy, nel rispetto del benessere reciproco. Ma il tratto più significativo di un testo che offre diverse letture su un tema scottante è probabilmente l’apertura dello sguardo attraverso Gorgona e al di là di essa.
Il punto di partenza dell’isola-carcere, paradigma del non-luogo e dimensione fisica e mentale del disciplinamento dei corpi viventi disposto dalle istituzioni moderne, per dirla nei termini di Foucault, è il punto di osservazione giusto per vedere con occhi diversi i meccanismi della società contemporanea, le relazioni tra la specie umana e i non umani, e mettere a fuoco gli interrogativi sulla legittimità della privazione della libertà come condizione utile per un percorso riabilitativo (non esistono studi che dicano se da un carcere particolare come Gorgona si esce come “persone migliori”, ma sarebbe utile che se ne facessero).
L’isola carceraria, che è anche allevamento, è una realtà contradditoria, è l’ espressione estrema, a un tempo, della segregazione – il mare è la barriera insuperabile per eccellenza – ma al contempo, e un po’ paradossalmente, il suo isolamento geografico ciò che consente ai detenuti umani di vivere l’illibertà in modo meno costrittivo ed agli animali da reddito di sperimentare una circoscritta libertà pur all’interno della reificazione che in realtà subiscono.
A Gorgona la totalità dei corpi umani e non umani che che vi abitano condivide la stessa sorte, tutti sono costretti alla docilità, ma intanto, forse inaspettatamente, in quel microcosmo le carte si mescolano e i ruoli si fanno indefiniti, gli animali diventano amici dei carcerati, ed essi collaborano con le guardie nella risoluzione dei problemi pratici di un contesto che conserva ancora qualcosa di selvatico.
Emblema di obbedienza, e immagine pacata di saggezza, le mucche più anziane che abitano Gorgona hanno quasi tutte assistito all’uccisione di dozzine di figli, sorelle, fratelli e compagni, eppure continuano a nutrire fiducia nelle persone. Il loro sguardo imperturbabile e serafico suggerisce interpretazioni altre della realtà, la loro inumana armonia, umilmente, fa vacillare la sensatezza del ruolo degli umani di padroni del mondo.
E allora cosa ci rende titolari di un diritto che neghiamo a tutti gli altri animali? Cosa se non quella legge non scritta del più forte che le norme dovrebbero sostituire, innervando i rapporti di equità?
Nella legislazione italiana ed europea il tema è più che attuale. Da noi la tendenza è da almeno trent’anni rivolta verso un riconoscimento delle soggettività animali, anche sulla base dell’etologia contemporanea, che ormai per i singoli di molte specie parla di “altre menti”. Questo ha portato a una serie di leggi manifesto, che tuttavia sono prive di norme che le rendano operative (e del sostrato culturale che ne pretenda l’attuazione): a ben guardare esse racchiudono in sé una contraddizione profonda di cui apparentemente ancora non si è presa appieno coscienza. Il riconoscimento del valore animale è infatti posto dalle affermazioni di principio in una tensione molto problematica con l’ “utile” umano, così che il divieto di causare dolore “inutile”, legittima implicitamente il dolore, o il male, utile, “necessario” (per l’uomo). Questo si traduce nella conseguenza, ancora più paradossale, che valendo quanto affermato all’art. 19 ter del codice penale, che pone il 99% delle situazioni nelle quali gli animali periscono per mano umana (caccia, pesca, allevamento intensivo, macellazione, sperimentazione animale) sotto regolazione di leggi speciali, l’eccezione si impone cento volte più della regola. Come sottolinea il sociologo Pocar, la contraddizione è tra diritto e ontologia, la legge converte quasi tutte le uccisioni ontologiche in non uccisioni giuridiche e così ne va non solo della bellezza del mondo ma anche e sopratutto dell’onore dell’uomo poiché oggi – che degli animali conosciamo la complessità psicologica ed emotiva ed agiamo sui loro corpi in piena consapevolezza – la sorte che riserviamo loro disonora l’umanità tutta.
Le leggi protezioniste allora fanno quasi peggio della mancanza di regole: descrivono come non problematica una schiavizzazione brutale di esseri riconosciutamente senzienti e coscienti, tollerata e da tollerare nella pressoché totalità dei casi.
Qualcosa di molto inquietante, qualora si avanzi il sospetto che la distinzione stessa tra umani e non umani, come quella tra chi ha soggettività e valore e chi non ne ha (o sarebbe più comodo non ne avesse) sia tutt’altro che granitica, ma piuttosto evanescente. Quella differenza nell’isola carcere di Gorgona, se quel luogo può in qualche modo valere come il particolare per il totale, si affievolisce fino a sparire.
I detenuti, scrive l’associazione Oltrelaspecie dopo una visita all’isola, che ripetono il meccanismo tramite cui l’umano si allontana dall’animale (strumentalizzandolo e uccidendolo) – alcuni non condividendo e provandone vergogna – si rieducano al meccanismo che regola la società, il loro corpo viene anch’esso addomesticato con una forzatura, il loro tempo diventa economicamente produttivo. Tra le loro mani c’è lo schiavo-macchina perfetto: dall’animale si pretende che produca materie prime, consumando il meno possibile, ammalandosi poco, e annullandosi rispetto allo scopo utile cui il sistema lo ha destinato.
Non sarà, allora – è la provocazione di Oltrelaspecie – che solo arrestando la macchina che produce l’umano, tramite la continua rimozione delle sue componenti animali, potremo un giorno smettere di arrestare?
Mentre erigiamo confini, stabiliamo regole, irregimentiamo il flusso vivente, gli animali, quando lasciati in pace, vivono e basta. Castagna, Concetta e Clandestina, le anziane mucche di Gorgona «mentre ruminano ti osservano come se stessero in un altro mondo e il loro sguardo va oltre la nostra comprensione, oltre la detenzione, oltre il carcere che le ospita».
E se la via per la pace fosse in quella natura animale da cui ci sforziamo di distinguerci, che ci respinge e al contempo ci attrae a sé inesorabilmente, come un atavico richiamo a ricucire lo strappo che ci ha confinato al di fuori di lei e condannati ad una ricerca senza fine?
Il fatto è che lo sappiamo già. Gli animali, coi loro corpi tormentati, «come il carcere stesso, non sono “da qualche altra parte”, ma sono dentro di noi».