In carcere non circola denaro, ma averne a disposizione resta un modo forte di affermare il proprio potere. Per regolamento i reclusi non possono spendere più di 420 euro al mese. E c’è anche chi a fine pena esce indebitato.
Francesco, 40 anni di cui 15 trascorsi in una mezza dozzina di penitenziari italiani, invece, non beve e non fuma: “I soldi? Li spendo per il cibo: pasta, biscotti e poco altro anche perché costa caro”.
Conclusione: l’economia di mercato, dietro le sbarre, è un flop. D’altronde di soldi in carcere non ne circolano: lo vieta l’amministrazione penitenziaria così come il regolamento delle carceri italiane vieta di tenere oggetti con un valore economico “consistente”, ovvero tutto ciò che potrebbe servire come strumento di ricatto e corruzione. Gli acquisti dietro le sbarre si fanno su ordinazione: si sceglie dalla lista appesa fuori dalle celle tra i prodotti in vendita al “bettolino” (lo spaccio del carcere, ndr); e ogni spesa viene annotata sul libretto di ciascun detenuto in cui sono riportate entrate, uscite e i soldi disponibili. Pochi, il più delle volte, anche per quei fortunati, circa un quarto dei detenuti italiani, che lavorano dentro o fuori dal carcere e guadagnano qualcosa. Ma se le entrate sono poche, non meno povere sono le uscite: il regolamento prevede che si possano spendere fino a 420 euro al mese. Soldi con cui il detenuto paga innanzitutto le spese di mantenimento in carcere: circa 50 euro mensili che rappresentano la quota dovuta da ogni recluso per contribuire al suo mantenimento. Il resto se ne va in sigarette, vino, birra, cibo, soldi alla famiglia.
Del denaro, della sua forma, consistenza, rumore delle monete, in carcere, te ne dimentichi. Tra i pensieri sparsi dei detenuti raccolti da “Il Due”, il giornale on line del carcere di San Vittore, ce n’è uno tanto semplice quanto emblematico: “Mi mancano le monete nelle tasche. In carcere il denaro non c’è, è virtuale. Mi manca la sensazione di avere le tasche da vuotare prima di piegare i calzoni”, ha scritto un recluso. Denaro invisibile. Eppure, secondo Marcello, detenuto a San Vittore, “i soldi in carcere sono un pensiero fisso, qui si sviluppa una vera dipendenza dal denaro”. Perché chi ce l’ha e lo usa bene, ha un (segue a pagina 15) (segue da pagina 6) gran vantaggio: “Acquista rispettabilità, può comprare più cose al bettolino e barattarle con altre, alzando la posta con chi invece non può permettersi nulla”. Potere del denaro senza denaro: così la parola magica è baratto, in parte ammesso dalle stesse regole del carcere che consentono la “cessione tra detenuti di oggetti di modico valore”. L’altra parola magica è sigarette. “Valgono molto -conferma Francesco, recluso al Due Palazzi di Padova-. Un pacchetto di sigarette si può scambiare con parecchie cose, soprattutto con il vino, l’altra passione di molti detenuti”. Altra preziosa moneta di scambio, i francobolli. “Tutti li usano, tutti hanno delle lettere da spedire, così anche i francobolli -racconta Marcello- sono ormai un bene ricercato in carcere. Sigarette e francobolli: quando si gioca a carte ci si gioca queste cose”.
Ma anche l’economia dell’indispensabile non può prescindere dal lavoro: poco e malpagato. È l’unica fonte di reddito dei detenuti e rappresenta una piccola conquista. “Se lavori qualcosa in più te lo puoi permettere”, dice Francesco, che ora lavora fuori dal carcere e cura il sito di “Ristretti Orizzonti”, giornale del penitenziario di Padova. Ma il lavoro in carcere è un privilegio. Alla fine del 2003 su circa 57mila reclusi in Italia a lavorare erano in 13.773. La stragrande maggioranza, oltre 11mila persone, impiegato in attività all’interno del penitenziario. Poco più di 2.300 quelli che lavorano fuori. Differenze di forma e sostanza: chi lavora “dentro” percepisce uno stipendio che si chiama “mercede”. Per la legge non dovrebbe essere inferiore ai due terzi di un salario previsto dai contratti collettivi per l’impiego che si svolge. “Ma a San Vittore – dice Marcello – pagano circa 300 euro, non ci sono i soldi e anche se lavori otto ore al giorno, te ne pagano tre”. Per chi lavora all’esterno, invece, il lavoro è pagato come a chiunque e lo stipendio si chiama stipendio. Solo che è invisibile. Ad amministrare stipendi e risparmi dei detenuti, tecnicamente chiamati “peculio”, infatti ci pensa il carcere. Il 20 per cento della mercede viene destinato al cosiddetto “fondo vincolato” (che serve a costituire un piccolo risparmio da rendere al detenuto al momento della scarcerazione), una parte se ne va per le spese del carcere, il resto del peculio va sul cosiddetto “fondo disponibile” di ciascun detenuto. Piccole spese e poco lavoro. Ma una montagna di debiti. È l’altro volto del denaro dietro le sbarre, che si materializza a fine pena e pesa come un macigno sulla vita degli ex detenuti. Francesco è arrivato a cumulare 20mila euro di debiti verso l’amministrazione penitenziaria. Come? “Se non lavori i 50 euro mensili di spese di mantenimento -spiega- ti vengono addebitate. Così se stai in carcere dieci anni e lavori poco come ormai succede perché si è in troppi per lavorare tutti, alla fine ti ritrovi con un bel gruzzolo da restituire”. Anche perché vanno sommate le multe comminate come pene accessorie al momento del giudizio e le spese processuali. L’unica scappatoia è la “remissione del debito”, la cui procedura è regolata dall’articolo 106 del regolamento penitenziario: è concessa solo a chi ha avuto una condotta cristallina durante gli anni in carcere e si trova in condizioni disagiate tali da compromettere il suo reinserimento.
Su questa Cassa i governanti devono fare ammenda
Si chiama “Cassa ammende”, venne istituita nel 1932 e si è gonfiata fino a contare 80 milioni di euro. Mai spesi. Denaro dei detenuti delle carceri
italiane, dovuto come risarcimento di multe e ammende, pagate, come pene accessorie dai colpevoli di processi di primo e secondo grado o come risarcimenti dopo ricorsi persi in Cassazione. Un fiume di denaro che nessuno ha mai pensato come spendere. Fino a quando, nel 2000, l’allora governo Amato decise: i soldi raccolti nella cassa ammende sarebbero stati destinati a all’assistenza economica delle “famiglie di detenuti ed internati e a programmi che tendono a favorire il reinserimento sociale dei detenuti”. Nel 2004 si scopre però che il regolamento alla legge non è
ancora stato emanato. Scoppia una piccola polemica politica, sollevata dai Radicali, in seguito alla quale il ministero della Giustizia annuncia di
aver stanziato sette milioni di euro della cassa per due progetti
di sanità in carcere (psichiatria e telemedicina).
Qualcuno lamenta che la sanità non rientrava nelle voci di spesa delle Cassa e, soprattutto, che il ministero ha proceduto senza che vi fosse l’apposito regolamento. Regolamento che dovrebbe stabilire i criteri con cui associazioni e privato sociale possono partecipare a bandi di finanziamento per i loro progetti.
Secondo un altro regolamento, quello penitenziario (art.112), il presidente della Cassa ammende è lo stesso capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, attualmente Giovanni Tinebra. Il capo del Dap dovrebbe assolvere un compito da amministratore delegato: stipulare i contratti, pagare le spese, vigilare sui conti.
I conti in tasca ai detenuti
Quanto spende un detenuto? Non più di 423,49 euro. È questo il limite di spesa fissato su base mensile dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), ma in realtà, i detenuti devono tenere una contabilità settimanale: sono 105,87 gli euro che si possono spendere in una settimana. Non di più. A cosa servono? Per fare piccoli acquisti in carcere (soprattutto alimentari) e per spese di corrispondenza. Le uniche deroghe sono concesse per libri e materiali di studio, per i quali è possibile sforare il tetto di 423 euro. A beneficiare di qualche possibilità di spesa in più sono anche le detenute madri che possono spendere somme maggiori se gli acquisti sono rivolti alla cura e all’assistenza dei bambini. Altro limite imposto ai carcerati è quello per gli invii di denaro ai familiari: non più di 180,75 euro al mese, a meno che il detenuto non lavori. In quel caso il denaro guadagnato può essere destinato alla famiglia. Tranne il 20 per cento: la parte di stipendio che viene accantonata nel fondo vincolato da restituire ai detenuti a fine pena.